Indiani nativi_battaglie

Le Grandi Battaglie

Little Big Horn > Durante la notte Custer aveva discusso con i suoi subalterni, il magg. Reno e il Cpt. Beenten la tattica da seguire. Nonostante l’opposizione di Reno Custer decise di dividere il suo reggimento in modo d’attaccare da due fronti gli indiani, convinto che il fattore “sorpresa” sarebbe stato decisivo. Le forze di cui disponeva Custer erano costituite da 12 compagnie: 5 direttamente al comando di Custer, 3 di Reno, 3 di Beenten ed infine un’ultima lasciata di scorta alle salmerie alle spalle dei gruppi operativi. Custer scrisse alla moglie ” Cara Eliza, sono felice ed eccitato. Domani sarà una giornata gloriosa. I giornali parleranno di me…”! Era sicuro di avere in mano la carta vincente che gli avrebbe consentito di dare la scalata alla Presidenza degli Stati Uniti. Alle ore 11,20 del 26 giugno 1876 il 7° Cavalleria, al passo, comincia ad avvanzare verso l’accampamento indiano, mentre un gruppo di scout comandati da Tom Custer, fratello del generale, viene avvistato da alcune vedette indiane che danno l’allarme. ore 12,45: Reno, seguendo gli ordini di Custer, attacca dal versante sud ma è costretto subito a ritirarsi a causa del numero impressionante degli avversari. Mentre cerca di riorganizzarsi l’offensiva degli indiani assume proporzioni bibbliche: i soldati di Reno sono costretti alla fuga. La ritirata di Reno si tramuta in disfatta; gli uomini circondati sono in preda al panico. Durante il riattraversanento del Little Big Horn si combatte all’arma bianca: le perdite sono sensibilissime. ore 14,00: Custer, proveniente da nord e credendo che Reno sia già all’interno dell’accampamento indiano, comanda di accelerare i tempi senza curarsi di mandare nessun esploratore a verificare il reale andamento della battaglia. Gli indiani si rendono conto che un’altra colonna di “giacche blu” li sta attaccando da nord. Gall e Cavallo Pazzo guidano il contrattacco: Gall da sud est, Cavallo Pazzo da nord. ore 15,30: Custer si rende conto di essere in trappola e anche le munizioni cominciano a scarseggiare; indiani pellerossa nord americani convoca quindi un messaggero e gli ordina di portare un dispaccio a Beenten: “…venite subito. Custer. Post scriptum: portate munizioni…”! Il messaggero John Martin, di origini italiane, riesce miracolosamente a passare il fronte nemico: sarà l’unico sopravvissuto. Intanto Reno è riuscito a disimpegnarsi momentaneamente e si rifugia con i propri uomini superstiti in un boschetto vicino: dopo la battaglia Reno verrà processato con l’accusa di codardia ma infine assolto. ore 16,00: Beenten non può raggiungere Custer perchè incalzato a sua volta dagli indiani. A prezzo di gravi perdite riesce a raggiungere la posizione di Reno e fare fronte comune con lui: sarà la salvezza dei due e dei loro uomini. ore 17,00: Custer, suo fratello Tom, il giornalista Kellog e tutti gli ufficiali sono morti. Alcuni uomini chiedono di arrendersi piangendo e invocando pietà ma per loro non c’è scampo: molti tra gli indiani avevano vissuto il dramma del fiume Washita dove Custer, senza nessuna pietà, aveva fatto a pezzi donne, vecchi e bambini. Il famoso 7° Cavalleria non esisteva più per il folle disegno di Custer e la sua sete di gloria. Le giacche blu cadute furono in tutto 432; i pellerossa dodici: la magia di Toro Seduto e “l’invulnerabilità” di Cavallo Pazzo avevano salvato gli indiani.

Sand Creek > Nel 1869 nelle terre dei Cheyenne era stato scoperto l’oro e gli uomini bianchi erano accorsi come mosche. All’inizio gli indiani accolsero i coloni amichevolmente con la speranza che una volta arricchiti del loro bottino, i bianchi avrebbero abbandonato il territorio; ma invece non se ne andarono più. Costruirono una città, Denver, per decretare in modo definitivo la presa di possesso. Il grande Padre Bianco di Washington aveva regalato ai suoi figli bianchi un nuovo territorio, il Colorado e gli uomini rossi che erano i soli ed autentici abitatori del luogo dovettero sloggiare ed accontentarsi di insediamenti inadeguati alle loro esigenze ed al loro numero. Nonostante ciò gli Araphao e i Cheyenne optarono per la pacifica coesistenza e vennero relegati lungo il “Fiume di polvere” il Sand Creek: ponevano come unica condizione la possibilità di cacciare i bisonti anche fuori da quell’angusta riserva. I capi indiani non sapevano che nel frattempo il Governatore Evans aveva emanato un proclama nel quale si diceva “… si autorizzano tutti i cittadini del Colorado, sia individualmente sia in gruppi organizzati a dare la caccia agli indiani nelle pianure…”! I soldati si mossero la sera del 28 settembre. Nell’accampamento non c’erano neppure le sentinelle in quanto gli indiani erano fiduciosi delle promesse dei bianchi. Per la maggior parte erano donne, vecchi e bambini, in quanto i guerrieri erano fuori per la caccia, circa seicento persone. Quando sentirono il rombo dei cavalli dei soldati gli indiani non potevano credere ai loro occhi. Persino un commerciante bianco di nome Smith ospite dei Cheyenne ed un soldato che lo accompagnava uscirono per andare incontro ai soldati. Furono i primi, benché riconosciuti, ad essere presi a fucilate. I soldati bianchi ed i loro comandanti, abbondantemente riempiti di whisky e di odio non erano più in grado di comportarsi come esseri umani. Cominciò cosi un massacro indiscriminato; il capo Antilope Bianca che si era portato verso i soldati, disarmato, per cercare di parlare fu fulminato da una scarica di pallottole. Più tardi il Tenente Connors, alla commissione d’inchiesta, raccontò: “… Tornato sul campo il giorno dopo non vidi un solo corpo di uomo, donna o bambino a cui non fosse tolto lo scalpo e in molti casi i cadaveri erano mutilati in modo orrendo: organi sessuali amputati a uomini e bambini e donne.; udii un uomo raccontare ridendo che aveva tagliato gli organi sessuali ad una donna e li aveva appesi ad un bastoncino; sentii un altro dire che aveva tagliato innumerevoli dita per impossessarsi degli anelli…”! Nonostante la ferocia dei bianchi molti indiani riuscirono a fuggire percorrendo oltre 80 chilometri nel gelo seminudi prima di trovare un rifugio. Il massacro di Sand Creek ebbe vasto eco anche negli ambienti governativi. Dalla capitale fu ordinata un’inchiesta sul conto del Governatore Evans e del Colonnello Chivington che guidò l’attacco: contro di essi non furono presi provvedimenti

Geronimo > Geronimo fu l’ultimo dei grandi capi indiani che si arrese agli americani. Egli non possedeva il fanatismo messianico di Toro Seduto, non il fascino carismatico di Nuvola Rossa, non il coraggio di Cavallo Pazzo, non la lealtà di Capo Giuseppe. Geronimo fu un Predone: egli combatté tutta vita un nemico che odiava e per far ciò si servì delle armi, delle conoscenze e delle imposture dell’uomo bianco. Un fatto però è certo: Geronimo non fu mai battuto da nessuno. Gli Stati Uniti spesero milioni di dollari e sacrificarono centinaia di vite per sconfiggerlo: inutilmente. Negli ultimi due anni della sua guerra privata, Geronimo con soli 50 uomini tenne testa ad oltre cinquemila tra americani e messicani, perdendo in tutto solo dieci uomini. Egli si arrese solo quando la sua stessa gente glielo chiese. Egli fu, dal punto di vista militare, un grandissimo capo. I suoi metodi di guerriglia dissanguarono l’esercito americano senza che i generali di West Point riuscissero a trovare efficaci contromisure. Forse, come scrivono alcuni storici, il grande guerriero Apache non fu un grande uomo. Forse davvero la sua ferocia era fine a se stessa ed i suoi ideali poco elevati. Egli comunque rappresenta l’ultima disperata resistenza di un popolo condannato al genocidio. Nel 1874, alla morte di Cochise, gli americani pensarono che gli Apache fossero rimasti privi di veri capi; ma gli americani conoscevano ancora poco “Colui che sbadiglia”, un uomo il cui volto, scrisse Lummins, “visto una volta non si può dimenticare”! Geronimo. Il motivo dello straordinario successo personale di Geronimo era da ricercare nel suo modo di combattere. Egli infatti si batteva secondo i canoni della guerriglia Apache, esasperandoli. Geronimo credeva più al suo fucile che agli Dei; egli quindi attaccava sia di giorno sia di notte senza timore che il suo Spirito, se fosse stao ucciso, vagasse ramingo. La sua tecnica era quella di colpire all’improvviso, velocemente, causando il maggior danno possibile e poi di sparire altrettanto rapidamente. Ogni volta che Geronimo andava in battaglia si preoccupava di nascondere armi, munizioni, cibo e cavalli in qualche luogo sicuro. In questo modo egli si riservava sempre un’ultima carta da giocare per sorprendere gli avversari quando questi lo braccavano da vicino. Viaggiava sempre veloce e leggero e soprattutto egli non mirava ad arricchirsi con bottini di guerra, ma solo a placare la sua terribile sete di vendetta. Geronimo morì all’età di 80’anni a Forte Still nel 1909, cadendo da cavallo completamente ubriaco. Si era convertito al cristianesimo e si era stupito per le grandi risorse dei bianchi quando gli fu permesso di visitare la grande Fiera di Saint Louis. Ma, come uomini, non ebbe mai rispetto dei bianchi.

La battaglia dei mille morti > PICCOLA TARTARUGA era un capo della tribù Miami di 38 anni. Si diceva che i sui modi fossero così scontrosi che nessuno degli altri capi lo amava: ma lo stesso non venne mai meno alla parola data e la sua competenza in campo militare era così vasta che tutti gli indiani gli ubbidivano naturalmente. Con un contingente composto da guerrieri Miami, Shawnee, Delaware, Wyandot e Irochesi, Piccola Tartaruga si dispose ad affrontare Il Generale Josia Harmar inviato dal Presidente Washington per piegare la confederazione indiana formatasi a nord dell’Ohio. Harmer, con 1435 fra ufficiali e soldati, uscì da Fort Washington, (presso l’odierna Cincinnati), nell’ottobre 1790. La prima mossa di Piccola Tartaruga fu l’invio di una piccola e veloce banda di guerrieri con l’incarico di agire da esca: Harmer inghiottì l’esca e inviò una colonna volante di 800 soldati a catturare gli indiani ostili. Nello scontro perse 23 uomini mentre gli indiani non ebbero alcun danno. I soldati fuggirono e Piccola Tartaruga ebbe la sua prima vittoria. Testardo Harmer raccolse i fuggiaschi, li confortò e continuò la sua marcia. Quando raggiuse il fiume Miami gli indiani lo circondavano completamente. Durante la notte misero in fuga la maggior parte dei cavalli dei soldati. Harmer s’infuriò a tal punto da spedire di nuovo 500 uomini in un inseguimento le cui tappe erano state accuratamente previste e predisposte da Piccola Tartaruga. Forse il Capo indiano sorrise essendo riuscito a per la seconda volta ad indurre il nemico a dividere le sue forze. Il 22 ottobre piombò direttamente sul confuso Generale. Nella battaglia che seguì gli americani persero 150 uomini e Harmar si ritirò in fretta con i suoi uomini. La sconfitta fu un grave colpo per il prestigio americano e Washington pensò che andasse cancellata. Il 3 novembre 1791 il Generale Arthur St. Clair alla testa di 2000 uomini raggiunse il fiume Wabash. All’alba i tamburi suonarono la sveglia, gli uomini si allinearono per l’adunata, poi ricevettero il “rompete le righe” per la colazione: era il momento scelto da Piccola Tartaruga per l’attacco. Dalla foresta, dove erano rimasti nascosti tutta la notte, i suoi guerrieri piombarono gridando sugli americani. Il primo assalto si abbatté su un reggimento di volontari male addestrati e peggio guidati: abbattuti a colpi di mazza e tomahawk i volontari ruppero le fila travolgendo anche i regolari che stavano prendendo posizione. I soldati inseguirono gli indiani nella foresta: ma anche questo faceva parte del piano di Piccola Tartaruga. I suoi guerrieri nascosti falciarono i regolari con il tiro dei fucili. Non appena i soldati furono in grado di uscire dalla trappola, una seconda carica di guerrieri di Piccola Tartaruga raggiunse il fianco sinistro degli americani dove era schierata l’artiglieria. In pochi minuti tutti gli artiglieri vennero uccisi. Travolto dagli indiani, annientato dalla disperazione e rendendosi conto che tutto ormai era perduto, dopo due ore di battaglia, St Clair ordinò la ritirata.Gli americani morti furono più di 900. Fu il più imponente disastro militare subito dall’esercito americano ad opera di indiani, largamente superiore al più famoso scontro di “Little Big Horn”! Alcuni storici la chiamano “la battaglia dei 1000 morti”, altri la “la sconfitta di St Clair”.

 

GIUSEPPE

Nome Originale

Hin-mah-too-yah-lat-kekht
(Il tuono che rimbomba sulla cima dei monti), Joseph

Tribù

NEZ PERCE’

Giuseppe trascorse un’infanzia felice e spensierata nella valle di Wallowa. Suo padre, che molto presto lo aveva indicato come suo successore, gli fece dare un’ottima educazione. Nonostante Giuseppe non fosse bellicoso e non avesse avuto, come tra i Sioux o gli Cheyenne, la possibilità di mettere in mostra capacità di quel tipo in continui combattimenti con le tribù vicine, aveva però imparato tutto ciò che un guerriero doveva sapere. Ma Giuseppe il Vecchio aveva prestato molta più attenzione nel preparare suo figlio, dal punto di vista del carattere e dello spirito che alla sua carica di futuro capo. Nel giovane Giuseppe si trovano quasi tutti i tratti di carattere distintivi di Giuseppe il Vecchio: nobiltà d’animo, timore di Dio, senso di responsabilità e coraggio. Possedeva inoltre una straordinaria capacità oratoria, il suo modo forte e immaginifico di esprimersi si evince chiaramente dalla lettura dei suoi discorsi e dei suoi proclami.

Dio creò terra per gli Indiani ed era come se avesse disteso un panno. Sopra vi mise gli Indiani. Sono stati creati qui, su questa terra… e allora cominciarono a scorrere i fiumi. Poi Dio creò i pesci nei fiumi, diede la vita alla selvaggina sulle montagne e ordinò che si moltiplicasse. Poi il Creatore diede la vita a noi Indiani. Ce ne andavamo in giro e quando vedevamo pesci e selvaggina, sapevamo che erano stati creati per noi. Dio creò radici e bacche perché le donne le raccogliessero… Dio ci ha creati perché vivessimo qui ed era nostro diritto cacciare e pescare finché io e mio nonno riusciamo a tornare indietro nel tempo con la memoria.

Dopo aver rifiutato di firmare il trattato del 1863, Giuseppe il Vecchio fece osservare ai suoi due figli, Giuseppe e Ollokot, che la valle di Wallowa era esclusa dal nuovo trattato che il traditore Lawyer aveva firmato. Apparteneva quindi, come prima, ai Nez Percé. I tumulti della guerra di secessione distolsero per alcuni anni l’attenzione degli Americani dal territorio del Nord-Ovest. Giuseppe il Vecchio morì nel 1871 e suo figlio divenne il capo dei Nez Percé della regione di Wallowa. Già poco prima aveva dovuto affrontare importanti scelte, che sapeva avrebbero avuto conseguenze importanti per la sua tribù. Comparvero, poco dopo, rappresentanti del governo che pretendevano un abbandono immediato della valle di Wallowa da parte dei Nez Percé. Giuseppe si oppose in modo tanto deciso a queste pretese che il presidente Grant, in base ai rapporti dei suoi incaricati, si vide costretto a proibire con un decreto, il 16 giugno 1873, qualsiasi insediamento dei bianchi nella valle. Ma due anni dopo non mantenne la parola e diede il permesso di “colonizzare” la valle, come veniva chiamato a quel tempo questo furto di terra. I Nez Percé avrebbero dovuto lasciare la loro patria entro un certo lasso di tempo, per trasferirsi nella riserva di Lapwai. Seguirono due anni di grandi tensioni e di disordini. Ma quando Giuseppe rifiutò ancora una volta, il generale Otis O. Howard ordinò di cacciare definitivamente e con forza i recalcitranti Nez Percé dalla valle. Nonostante Howard fosse profondamente convinto dell’assurdità di questa politica, dovette comunque recitare la parte dell’ “uomo violento”. Chiese perciò un ultimo colloquio a Giuseppe, colloquio che avrebbe dovuto aver luogo a Lapwai. Nel maggio del 1887, Giuseppe si presentò in compagnia del fratello Ollokot, del capo Looking Glass e dello stregone Toohoolhoolzote, una specie di profeta della tribù dei Nez Percé. Con le sue risposte quest’ultimo non lasciò a Howard altra scelta che farlo prigioniero – perché lo metteva in grande imbarazzo – e porre un ultimatum ai capi: nel giro di trenta giorni avrebbero dovuto lasciare la valle di Wallowa per dirigersi nella riserva di Lapwai. A malincuore Giuseppe dovette riconoscere di non avere altra scelta se non quella di cedere alle minacce. Toohoolhoolzote, che nel frattempo era tornato libero, esortò alla guerra contro i ladri della terra, ma Giuseppe invitò alla prudenza. I Nez Percé radunarono in fretta tutte le loro greggi, almeno quelle che fu loro possibile radunare in quel breve lasso di tempo, attraversarono il fiume Snake e impiantarono un grande campo nel Rocky Canyon. Nonostante il tempo stringesse e Howard avesse minacciato di ricorrere alle armi per cacciare i Nez Percé se avesse superato anche di un solo giorno la data stabilita, gli indiani non facevano alcun preparativo per proseguire il viaggio. Tra i giovani guerrieri l’inquietudine aumentava sempre più. Ollokot, Toohoolhoolzote, White Bird e altri capi invocavano la guerra, ma Giuseppe invitò ancora alla calma ma i suoi guerrieri divenivano sempre più testardi e, infine, un gruppo di teste calde prese la scusa dell’uccisione di un Nez Percé da parte di un colono per scatenarsi in una serie di sanguinosi assalti ai bianchi. Giuseppe era disperato, perché ora non era più possibile mantenere la pace. Fu in questa situazione che si dimostrò chiaramente una guida lungimirante e fondamentale per la sua tribù. Poiché sapeva che destino avevano avuto gli Indiani degli Altopiani, progettò subito di andare in Canada – come aveva fatto Toro Seduto – dove gli indiani non erano perseguitati. Nell’ Idaho, in località White Bird, il 17 giugno 1877 si verificò il primo scontro con gli inseguitori. Giuseppe, in realtà, aveva tentato di fare un estremo tentativo per comporre pacificamente il conflitto ma i soldati americani, al comando del capitano Perry, aprirono il fuoco sui mediatori dei Nez Percé, nonostante questi avessero la bandiera bianca. I malcapitati poterono a malapena mettersi in salvo. Tuttavia le truppe che stavano avanzando si trovarono sotto il fuoco dei Nez Percé che, come i guerrieri Modoc, erano nati per essere tiratori molto abili. Quindi, con alcune mosse magistrali, degne di un giocatore di scacchi, i Nez Percé riuscirono a chiudere nell’angolo i soldati di Perry, a infliggere loro pesanti perdite fino a costringerli alla fuga. Perry dovette lamentare trentaquattro morti oltre a numerosi feriti, mentre i guerrieri di Giuseppe avevano avuto solo quattro feriti ! Pochi giorni dopo giunse a White Bird Canyon il generale Howard, con più di duecento uomini, per rimediare all’errore di Perry. Ma Giuseppe, che con le sue spie seguiva attentamente ogni movimento del nemico, decise di fare un passo assolutamente imprevedibile da parte di Howard: anziché nascondersi nelle zone impervie al di là del fiume Snake, attraversò il fiume Salmon e si diresse a nord, poi riattraversò il fiume. Howard, disorientato, vagò tra le montagne alla ricerca dei Nez Percé, che nel frattempo si erano ricongiunti a Looking Glass. Poco prima del ricongiungimento, i Nez Percé avevano teso un agguato ad un reparto di cavalleria, al comando del capitano Whipple, e avevano ucciso undici uomini. Giuseppe e Looking Glass ribadirono insieme la decisione di condurre la propria gente (circa settecento persone, di cui duecentocinquanta guerrieri) in Canada. Prima che potessero partire, le spie comunicarono che Howard stava sopraggiungendo con altri settecento uomini. Howard inoltre aveva a disposizione due cannoni con i quali bersagliò il campo dei Nez Percé, però invano perché gli indiani avevano, in tutta fretta, messo in salvo donne e bambini, oltre ai duemila cavalli che portavano con loro. A quel punto Giuseppe ordinò di attaccare. I tiratori scelti misero sotto tiro le postazioni degli americani e Howard vide con grande rabbia come i suoi soldati venivano falciati dalle pallottole dei Nez Percé. Giuseppe si trovava al centro di quel tumulto e impartiva ordini. I suoi guerrieri a cavallo aggredirono le truppe di Howard ai fianchi, per cui il famoso generale della guerra civile fu costretto a mettersi sulla difensiva. Anche di notte i Nez Percé non lasciarono in pace i soldati, ma quando, il mattino seguente fu annunciato l’arrivo della cavalleria, gli indiani si ritirarono, senza lasciarsi nulla alle spalle. Come già per la battaglia di Point Pleasant anche quella di Clearwater fu considerata dagli Americani una parziale vittoria, ma tra coloro che vi avevano preso parte non aleggiava certo l’entusiasmo per la vittoria. Per avere il tempo di fare i preparativi per il lungo viaggio verso il Canada, Giuseppe pose un campo vicino a Kamiah e mandò dei mediatori dal generale Howard. La richiesta di quest’ultimo fu un’immediata capitolazione e, inoltre, tutti i guerrieri avrebbero dovuto comparire di fronte al tribunale. Senza neanche pensare un solo attimo a questa assurda richiesta, Giuseppe si mosse per raggiungere il Montana, attraverso le Bitter Root Mountains. Howard avrebbe voluto organizzare un inseguimento, ma il ministero della guerra di Washington gli ordinò di non continuare la caccia. Howard si mise allora in contatto con il capitano Rawn di Fort Missoula, che si mise subito in cammino con duecento uomini per Lolo Canyon, luogo da cui Giuseppe avrebbe dovuto certamente transitare. Il 27 luglio si fece avanti Looking Glass con alcuni guerrieri per trattare con Rawn. Ma il capitano tentava di temporeggiare perché Howard potesse attaccare i Nez Percé alle spalle. Pregò gli indiani di tornare il giorno dopo, per continuare a trattare. Ma Giuseppe e Looking Glass intuirono la mossa, fecero finta di accettare il rinvio, ma cercarono e trovarono un passaggio per superare le ripide pareti rocciose della gola, e così passarono più in alto con tutta la loro gente e gli animali, senza che Rawn se ne accorgesse. Posero quindi il campo sul fiume Big Hole – senza ascoltare gli avvertimenti di Giuseppe, che non si sentiva ancora al sicuro – per andare a caccia e dare un po’ di tregua ai feriti. Ma il brutto presentimento di Giuseppe si sarebbe purtroppo avverato. Il 9 aprile 1877, il colonnello Gibbon, avvertito telegraficamente, attaccò il campo dei Nez Percé. Al primo assalto furono uccisi numerose donne e bambini e scoppiò il panico ma, nonostante la rabbia, Giuseppe mantenne il sangue freddo e ordinò ai suoi guerrieri di attaccare i soldati dai lati e da dietro. Di nuovo gli americani dovettero sperimentare la mira dei tiratori scelti dei Nez Percé: trentun soldati dovettero pagare l’assalto con la vita e altri trentotto rimasero feriti. La compagnia di Gibbon sarebbe stata completamente annientata se Giuseppe non fosse stato avvertito che Howard stava sopraggiungendo con le sue truppe e non avesse dato immediatamente l’ordine di ritirarsi. L’aggressione di Gibbon risulta ancora più ripugnante, se si considera che i Nez Percé non avevano mai fatto nulla di male ai civili, durante il viaggio, anzi strada facendo avevano persino comprato e pagato provviste da commercianti bianchi. Senza pietà gli americani proseguirono il loro inseguimento. Mentre già Howard pensava che i Nez Percé fossero ormai tanto fiaccati che presto si sarebbero arresi, di notte lo derubarono di tutti i suoi animali da soma e uccisero quattro uomini. Impotente e furibondo, fu costretto a rimanere indietro; si diresse allora nello Yellowstone, dove fu accolto dal generale Sherman che, irritato per la brutta figura rimediata dall’esercito americano, mandò l’ordine a Fort Keogh di circondare i Nez Percé. Giuseppe cercò allora aiuto dai Shoshoni di cui era amico che però, al pari dei Corvi, rifiutarono, temendo di essere coinvolti nel vortice degli avvenimenti. I Corvi, addirittura, li denunciarono al colonnello Samuel Sturgis, il che non fa certo loro grande onore. Sturgis si mosse con trecentocinquanta uomini del 7° Cavalleria – riorganizzato da Custer – da Fort Keogh, per intercettare i guerrieri di Giuseppe. Con una manovra molto abile, questo grande stratega riuscì a mettere gli inseguitori su una falsa pista e proseguì a nord, verso il confine canadese, senza però sapere che anche il generale Miles si era messo sulle sue tracce. Il 23 settembre, i Nez Percé attraversarono il Missouri, ma le loro provviste erano ormai agli sgoccioli e gli inseguitori erano sempre più numerosi. Per fortuna trovarono una piccola postazione militare di cui vuotarono la dispensa. Rifocillati, ripresero il cammino in direzione nord e si accamparono a nord delle Bear Paw Mountains. Il 29 settembre, il generale Miles con sei compagnie del 5° Reggimento di fanteria, due reparti del 2° Cavalleria e tre del 2° Fanteria, attaccò i Nez Percé, che erano stati scovati dagli scout Sioux e Cheyenne dell’esercito. Il primo attacco fallì sotto la pioggia di pallottole dei Nez Percé. In pochi minuti più di cinquanta cavalieri caddero, la maggior parte dei quali ufficiali. I Nez Percé lamentarono sedici guerrieri morti, tra cui due dei loro capi più importanti: il fratello di Giuseppe, Ollokot, e Toohoolhoolzote. Il generale Miles fu costretto, a causa delle elevate perdite, a porre fine al combattimento. Giuseppe fece immediatamente scavare trincee ed erigere barricate che permisero ai Nez Percé di respingere anche il nuovo attacco del 7° Cavalleria e di una compagnia, al comando del capitano Snyder, nel mentre, sulla zona, imperversava una grande tempesta di neve. Gli indiani, durante la notte rinforzarono le fortificazioni e mandarono messaggeri da Toro Seduto, in Canada, che distava solo un giorno di marcia dal campo Sioux, ma per Toro Seduto dare aiuto militare sarebbe stato un rischio troppo grande. Il mattino successivo Miles, tramite un intermediario, chiese a Giuseppe un colloquio. I due avversari si incontrarono, ma Giuseppe respinse decisamente la proposta di capitolazione incondizionata e avanzò invece la pretesa che ai Nez Percé fosse concesso il ritorno nella valle di Wallowa. Naturalmente il colloquio non si concluse in modo positivo. Immediatamente dopo gli americani aprirono il fuoco con i loro cannoni, ma i Nez Percé riuscirono a tenerli in scacco con i colpi dei loro “franchi tiratori”. Di nuovo Miles chiese di trattare e Giuseppe accondiscese alla richiesta del generale Miles, che pretendeva la consegna delle armi, e in cambio i Nez Percé avrebbero potuto tornare in Idaho, dove sarebbero tornati in possesso delle stesse terre che avevano abbandonato. Il piano del generale prevedeva che, proditoriamente, Giuseppe avrebbe dovuto essere trattenuto, ma il piano fu sventato perché i Nez Percé, a loro volta, avevano fatto prigioniero un ufficiale americano, per cui Giuseppe potè tornare libero. Nel frattempo era giunto il generale Howard con le sue truppe, quindi Giuseppe si rese conto che non era più possibile sfuggire, dato che non era giunto lo sperato aiuto da parte di Toro Seduto. Ripresero quindi le trattative e a Giuseppe fu proposto che ai suoi sarebbe stata risparmiata la vita e che avrebbero potuto tornare nella riserva. Il capo chiese di poter riflettere e tornò al campo. Looking Glass e White Bird volevano combattere ad oltranza. I Nez Percé avevano perso altri diciannove guerrieri, mentre gli americani ci avevano rimesso un quinto dei loro soldati. Ma Giuseppe vedeva quanto fossero sfiniti ed esausti donne e bambini. Quando anche Looking Glass trovò la morte in un nuovo scontro, decise di andare, seppur con la morte nel cuore, dai generali americani per arrendersi. Attraversando regioni impervie aveva percorso con la sua gente più di duemila miglia e, per un certo periodo, aveva tenuto in scacco fino a duemila inseguitori. Il discorso che Giuseppe fece quando si consegnò è divenuto famoso come capolavoro di arte oratoria indiana per rappresentare una situazione senza via d’uscita:

Il generale Howard dice che conosco il suo cuore. Ciò che mi ha raccontato poco fa, lo sento già nel mio cuore. Sono stanco di combattere. I nostri capi sono morti: Looking Glass e Toohoolhoolzote sono morti, I vecchi sono morti. Tocca agli uomini giovani, ma Ollokot, che li guidava, è morto. Fa freddo e non abbiamo coperte. I bambini muoiono di freddo, molti dei miei si sono rifugiati sulle colline, senza coperte ne cibo, nessuno sa dove siano e forse sono già morti di freddo. Desidero avere tempo per cercare e trovare i miei bambini, quelli che ancora potrò trovare. Forse li troverò fra i morti. Ascoltatemi, generali! Sono stanco, e anche il mio cuore è stanco e triste. D’ora in poi non voglio più combattere.

Non tutti i Nez Percé si arresero. Durante la notte White Bird, con più di cento persone, tra cui la figlia di Giuseppe, riuscì a raggiungere il confine canadese. Alcuni indiani Cree li accolsero amichevolmente e aiutarono gli scampati a raggiungere Toro Seduto che diede loro il benvenuto nel suo campo. A Giuseppe e ai suoi andò peggio. Il generale Miles, ancora una volta, non mantenne la parola data e non lasciò tornare i Nez Percé nella loro riserva, ma li fece brutalmente trasferire a Fort Leavenworth, in Kansas, dove molti morirono di malaria. Nel luglio 1878, furono trasferiti nel territorio indiano, dove venne loro offerta una striscia di terra desertica, come riserva. Inutilmente Giuseppe protestò per il tradimento degli Americani. Sosteneva a gran voce di essersi arreso per non lasciare nei guai donne e bambini e confidando nella parola del generale Miles. Alla fine gli fu concesso di andare a Washington dove, il 14 gennaio 1873, tenne un discorso di fronte al governo e al parlamento, in cui chiedeva al presidente Hayes di permettere il ritorno della sua tribù in patria.

Non capisco perché per il mio popolo non sia stato fatto nulla. Si parla, si parla e non accade nulla. Le belle parole non riportano in vita il mio popolo morto. Non aiutano neanche il mio paese, che ora è invaso dai bianchi. Non proteggono la tomba di mio padre. Non mi restituiscono i miei cavalli e il mio bestiame. Le belle parole non possono ridarmi i miei figli, le belle parole non liberano il generale Miles dalla promessa fatta. Non ridaranno la salute al mio popolo e non aiuteranno a risparmiare loro una morte prematura. Le belle parole da sole non daranno una patria al mio popolo dove poter vivere in pace e dove poter essere padroni di se stessi. Sono stanco di dire parole inutili. Mi fa male al cuore ripensare alle tante belle parole pronunciate e alle tante promesse infrante. Sono già state dette troppe cose da uomini che non ne avevano il diritto. Troppe interpretazioni sbagliate, troppi malintesi ci sono stati tra bianchi e Indiani. Se i bianchi vogliono vivere in pace con gli Indiani, lo possono fare senza difficoltà. I disordini si possono evitare. Trattate tutte le persone allo stesso modo, date a tutti le stesse leggi, date a tutti le stesse possibilità di vivere ed evolversi. Tutti gli uomini sono stati creati dallo stesso Grande Spirito. Sono tutti fratelli. La terra è la madre di tutti gli uomini e tutti gli uomini vantano gli stessi diritti sul suo possesso. Potete aspettarvi che l’acqua cominci a scorrere verso l’alto, con le stesse probabilità che qualcuno che è nato libero sia contento se viene imprigionato e gli viene negata la libertà di andare dove vuole. Se legate un cavallo alla sbarra, vi aspettate che cresca forte? Se tenete un indiano in un fazzoletto di terra e lo costringete a rimanervi, non sarà soddisfatto, non potrà crescere e progredire. Ho chiesto a molti grandi capi bianchi, che diritto abbiano di ordinare all’indiano di rimanere in un luogo, quando è costretto a vedere che i bianchi possono andare dove vogliono. Non hanno saputo darmi una risposta. Chiedo solo al governo di essere trattato come sono trattate le altre persone. Se non mi è permesso tornare nella mia patria, fatemi almeno vivere in un paese dove il mio popolo non muoia così rapidamente. So che la mia razza deve cambiare. A causa dei bianchi non possiamo continuare a vivere come abbiamo fatto finora. Chiediamo solo di avere la possibilità di vivere come le altre persone. Pretendiamo di essere riconosciuti come persone. Chiediamo che la stessa legge sia applicata nello stesso modo per tutte le persone. Se un indiano infrange la legge, la legge lo punisce! Se è un bianco a infrangere la legge, venga ugualmente punito! Lasciate che io sia un uomo libero, un uomo che si possa muovere liberamente, che possa restare dove vuole, esercitare un’attività commerciale, se lo desidera, che possa scegliere liberamente i propri insegnanti e che possa esercitare in piena libertà la religione dei suoi padri, che sia libero di pensare, di parlare e di agire e io osserverò qualsiasi legge o accetterò la punizione!

Ma questo appello non fu ascoltato. A parte questo, con questo discorso Giuseppe entra nella schiera dei grandi oratori indiani, come Tecumseh, Giacca Rossa o Seattle. Del resto anche i Nez Percé consideravano che l’importanza di un capo dipendesse principalmente dalle sue capacità retoriche, naturalmente unite alle doti di grande guerriero. Per i Nez Percé si ripetè lo spettacolo vergognoso, già visto con gli Cheyenne e gli Apache. Per anni furono trattenuti, contro la loro volontà, nel territorio indiano. Nel 1883, infine, le autorità diedero il permesso a un gruppo di trentatre donne e bambini di tornare in patria, e l’anno successivo poté far ritorno un gran numero di Nez Percé. Ma Giuseppe, e quello che rimaneva della sua gente, vennero considerati troppo pericolosi perché potessero tornare nella valle di Wallowa. Ma, nel 1885, poterono almeno trasferirsi a Nespelem, nella riserva di Colville, nello stato di Washington. Nel 1889 Giuseppe andò a visita a Wallowa e con grande tristezza posò lo sguardo sui prati e sui boschi della sua patria di un tempo, in cui gli era vietato restare. Senza sosta si adoperò perché anche il resto del suo popolo potesse farvi ritorno. Nel 1903 si recò per l’ultima volta a Washington dove incontrò il presidente Roosevelt e il generale Miles. Ancora una volta, però, non riuscì a ottenere il permesso, nonostante Giuseppe fosse ormai visibilmente “civilizzato”. Dedicò tutte le sue forze all’educazione dei giovani Nez Percé, per fornire loro i presupposti per vivere in un ambiente completamente cambiato e metterli in guardia dal gioco e dall’alcool. Il 21 settembre 1904, Giuseppe morì e con lui se ne andava una delle più grandi personalità indiane. Risulta difficile capire ciò che più stupiva in lui, se la sua gran umanità, se il suo genio strategico o la sua capacità di oratore. Si può convenire con il suo nemico di un tempo, il generale Miles, che parlava di Giuseppe come dell’indiano più completo che avesse mai conosciuto.

 

 

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